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FID al Parlamento Britannico per presentare la l. 130/23 sullo screening

Siamo lieti di condividere un importante riconoscimento internazionale per l’Italia e per il lavoro svolto da Fondazione Italiana Diabete (FID). L’Italia – grazie alla Legge 130/23, che ha introdotto lo screening pediatrico per il diabete di tipo 1 e per la celiachia – è entrata nel dibattito internazionale sulla prevenzione del diabete.
Mercoledì scorso, il Prof. Emanuele Bosi, Presidente del nostro Comitato Scientifico, è stato invitato a intervenire presso l’All Party Parliamentary Group for Diabetes (APPG) del Parlamento del Regno Unito – un intergruppo parlamentare dedicato specificamente al diabete – per presentare i dettagli della “nostra” legge e l’esperienza pilota del progetto D1CE.

Il contesto e gli obiettivi

Durante l’incontro, il Professor Bosi ha illustrato il percorso che ha portato all’approvazione della Legge 130/23 in Italia, mettendo in luce:

  • il razionale scientifico alla base dello screening precoce del diabete di tipo 1;
  • i capisaldi della legge: screening degli anticorpi nell’intera popolazione pediatrica, non solo i familiari, come strumento di salute pubblica per prevenire la chetoacidosi diabetica in esordio e permettere lo sviluppo di terapie che modificano il corso della malattia, accompagnato da una campagna nazionale di comunicazione;
  • i risultati dello studio pilota D1CE, volto a verificare l’efficacia pratica dello screening in età pediatrica;
  • le potenzialità di estendere questo modello ad altre realtà nazionali, in particolare al Regno Unito.

L’obiettivo – condiviso da FID – è che il Parlamento inglese prenda in considerazione un provvedimento analogo, che renda lo screening del diabete di tipo 1 un’attività sistematica di sanità pubblica anche nel Regno Unito.

Il ruolo di Breakthrough T1D UK e il White Paper

L’iniziativa è stata ospitata da Breakthrough T1D UK, che da tempo esercita una forte pressione affinché nel Regno Unito venga avviato uno screening di popolazione per il diabete di tipo 1, con due obiettivi principali:

  1. Ridurre il ricorso alla chetoacidosi in esordio (DKA) – che in alcune regioni del Regno Unito riguarda fino al 60% dei bambini al momento della diagnosi. 
  2. Permettere un intervento precoce che possa ritardare la comparsa della malattia sintomatica, migliorare l’impatto clinico e ridurre gli oneri assistenziali. 

In questa occasione, Breakthrough T1D UK ha presentato un documento intitolato Changing the story: Why early detection of type 1 diabetes must become the norm”. Il White Paper — disponibile integralmente online — analizza:

  • le evidenze scientifiche a supporto dello screening precoce (autoanticorpi, fasi precliniche del diabete di tipo 1) 
  • le implicazioni cliniche e di sistema: diagnosi prima della DKA, riduzione delle ospedalizzazioni e ottimizzazione dell’approccio terapeutico; 
  • le raccomandazioni per la realizzazione di un programma nazionale di screening, includendo sensibilizzazione, accesso al test e corretta infrastruttura di follow-up. 

Per leggere il documento completo: Why early detection of type 1 diabetes must become the norm – Breakthrough T1D UK

L’Italia come modello internazionale

La partecipazione italiana a questo dibattito testimonia come la Legge 130/23 rappresenti un esempio concreto e riconosciuto a livello internazionale. Il modello italiano infatti ha già definito:

  • la fattibilità tecnica dello screening pediatrico per il diabete di tipo 1 e per la celiachia;
  • un modello operativo sperimentale (progetto D1CE) che ha alimentato i passaggi normativi;
  • un potenziale impatto tangibile in termini di prevenzione, diagnosi precoce e miglioramento della qualità di vita per bambini e famiglie.

FID è orgogliosa che il suo impegno nel campo della ricerca e della prevenzione venga valorizzato anche fuori dai confini nazionali.

Il valore della vostra partecipazione

Questo traguardo non sarebbe stato possibile senza l’impegno del nostro comitato scientifico, dei ricercatori, delle istituzioni sanitarie e di tutti coloro che, con il loro sostegno, rendono possibile la nostra azione.
Il contributo di chi ci sostiene ci permette non solo di arrivare prima ad una cura del diabete di tipo 1, ma anche di intervenire oggi per migliorare la vita di chi è destinato ad ammalarsi.

Vi invitiamo a seguire gli aggiornamenti su questa iniziativa, e a restare informati sulle prossime tappe operative. Insieme possiamo contribuire a costruire un futuro in cui il diabete di tipo 1 sia diagnosticato prima dei sintomi e della chetoacidosi diabetica e gestito prima che diventi malattia conclamata, allontanando sempre di più il giorno in cui si rende necessaria l’insulina e, in ultima analisi, aprendo la strada alla prevenzione di questa malattia. Perché il nostro obiettivo non è solo guarire i 9 milioni di persone che già soffrono di diabete di tipo 1, ma non far ammalare le centinaia di milioni destinate ad ammalarsi nei prossimi anni.

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Un Nobel che parla di noi!

Il Nobel per la medicina 2025 è molto importante per le persone con diabete di tipo 1

Il Premio Nobel per la Medicina 2025 è stato assegnato la scorsa settimana a Mary E. Brunkow, Fred Ramsdell e Shimon Sakaguchi per le loro scoperte fondamentali sui meccanismi che mantengono l’equilibrio del sistema immunitario e impediscono che esso attacchi il proprio corpo.

Può sembrare un argomento lontano dal diabete, ma non lo è affatto: questo Nobel riconosce ricerche che hanno aperto la strada a nuove strategie per fermare le malattie autoimmuni, tra cui anche il diabete di tipo 1.

Le scoperte premiate: chi sono le “guardiane” del sistema immunitario?

I tre scienziati hanno scoperto e caratterizzato un tipo particolare di cellule immunitarie, chiamate linfociti o cellule T regolatorie (in breve T-reg), che agiscono come “freni” del sistema immunitario, come cellule che portano “pace”.
La loro funzione è fondamentale: evitare che altri tipi di linfociti (per esempio quelli citotossici, che sono aggressivi) attacchino i tessuti sani dell’organismo.

Negli anni ’90, il giapponese Shimon Sakaguchi fu tra i primi a identificare queste cellule e a dimostrare che la loro assenza porta allo sviluppo spontaneo di malattie autoimmuni. Mary Brunkow e Fred Ramsdell scoprirono successivamente il gene FOXP3, che “accende” il programma genetico delle T-reg e permette loro di funzionare correttamente.
Mutazioni di questo gene FOXP3, infatti, causano gravi sindromi autoimmuni già nei bambini (come ad esempio una malattia terribile che si chiama IPEX).

Insieme, questi lavori hanno dimostrato che la tolleranza immunitaria — cioè la capacità del nostro sistema immunitario di distinguere tra “self” (cellule dello stesso corpo) e “non-self” (invasori esterni tipo virus o batteri o formazioni cancerose) — non si costruisce solo nel timo (la cosiddetta tolleranza centrale), ma viene mantenuta continuamente anche in periferia, grazie all’azione di queste cellule T-reg.
È questa “sorveglianza costante” che impedisce al sistema immunitario di rivolgersi contro il corpo stesso.

Diabete di tipo 1: quando il sistema immunitario si ribella e uccide le cellule che funzionano

Il diabete di tipo 1 è una malattia autoimmune: il sistema immunitario attacca e distrugge le cellule β del pancreas, che producono insulina.
Quando le cellule T regolatorie non funzionano bene — o sono troppo poche — non riescono a fermare l’attacco dei linfociti “aggressori o citotossici”, e così le cellule pancreatiche vengono gradualmente eliminate e il pancreas non riesce più a produrre insulina.

In pratica, è come se il sistema immunitario “dimenticasse” che quelle cellule fanno parte del corpo.
Ed è proprio qui che entrano in gioco le ricerche dei tre Nobel: capire e rafforzare i meccanismi di tolleranza immunitaria è la chiave per evitare questo attacco autodistruttivo.

Dalla scoperta di base alla ricerca per una cura

Le scoperte sulle T-reg non sono solo un passo avanti teorico, ma la base di nuove terapie sperimentali oggi in corso in diversi centri di ricerca nel mondo, tra cui anche in Italia.
L’obiettivo è ripristinare la tolleranza immunitaria e fermare la malattia alla radice.

I principali filoni di ricerca riguardano:

  1. Terapie cellulari con T-reg: isolare le T-reg da un paziente, espanderle in laboratorio e reintrodurle per rinforzare i meccanismi di controllo del sistema immunitario. Studi pilota hanno dimostrato che le terapie cellulari con T-reg sono fattibili e ben tollerate, ma ancora poco efficaci nel il diabete di tipo 1 e altre patologie autoimmuni. Per questo si sta lavorando per istruire le T-reg a riconoscere in modo specifico gli antigeni delle isole di Langherans con lo scopo di ottenere una tolleranza mirata per il diabete di tipo 1.
  2. Migliorare la funzione delle T-reg: potenziare la loro stabilità e resistenza all’infiammazione (per esempio, attraverso molecole come IL-2 o IL-7, che ne sostengono la sopravvivenza).
  3.  Identificare chi è a rischio: scoprire biomarcatori che segnalano una disfunzione delle T-reg nei soggetti predisposti, così da intervenire prima che il diabete si sviluppi.
Il commento del ricercatore Paolo Monti (finanziato da FID)

“Mentre la maggior parte delle cellule immunitarie sono addestrate per combattere, le cellule T regolatorie sono i pacificatori. Senza questi pacificatori, saremmo tutti bloccati in infinite guerre civili contro i nostri stessi tessuti. Grazie a loro, abbiamo equilibrio, tolleranza e il ricordo che a volte gli eroi sono proprio coloro che impediscono la lotta.”

Il ricercatore Paolo Monti, del Diabetes Research Institute di Milano, sostenuto da FID nella sua ricerca volta a trovare una terapia al diabete di tipo 1 che utilizzi proprio le T-Reg, ha commentato così sui suoi profili social questo premio.

Perché questo Nobel è anche una speranza

Il Nobel per la Medicina 2025 non è solo un premio al passato, ma una finestra aperta sul futuro: ha riconosciuto l’importanza di un meccanismo biologico che, se compreso e modulato, può trasformare il modo in cui curiamo le malattie autoimmuni.

Per le persone con diabete di tipo 1, significa guardare avanti con più fiducia: non solo controllare la glicemia, ma fermare la malattia alla sua origine, intervenendo sul sistema immunitario stesso.

Fondazione Italiana Diabete: investire nella ricerca che cambia il futuro

La Fondazione Italiana Diabete sostiene progetti di ricerca innovativi proprio in questa direzione:

  • studi sulle cellule T regolatorie,
  • sviluppo di immunoterapie personalizzate,
  • e iniziative per prevenire il diabete tipo 1 nelle persone a rischio.

Il Nobel 2025 è la conferma che è importante percorrere questa strada.
Capire il sistema immunitario non serve solo a “curare meglio” — ma a cambiare il corso della malattia.

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SPORT E DIABETE DI TIPO 1: 10 COSE CHE ALLENATORI E ALLENATRICI DEVONO SAPERE 

 

Quando inizio ad allenarmi, non porto solo l’attrezzatura sportiva.  

Porto anche un sensore, un microinfusore o delle penne d’insulina, e la consapevolezza che ogni allenamento è un nuovo viaggio di conoscenza e crescita. 

Fare sport con il diabete di tipo 1 è possibile. 

Non serve proteggermi o escludermi, ma capirmi e ascoltarmi. 

L’attività fisica è una parte fondamentale della mia vita e, con il giusto supporto, può diventare anche una grande alleata nella gestione del diabete. 

Capirmi non significa trattarmi diversamente dagli altri. Significa allenare anche la fiducia. 

Ecco 10 cose – vere, concrete e spesso fraintese – che ogni allenatore/allenatrice dovrebbe sapere quando allena una persona con diabete di tipo 1. 

  1. Posso fare qualsiasi sport, a qualsiasi livello

Non c’è un “non puoi” nel diabete di tipo 1. Posso correre, nuotare, sollevare pesi, competere. Il diabete è una patologia che richiede attenzione e conoscenza. Dietro ogni atleta con diabete c’è un lavoro extra: imparare a conoscere il proprio corpo e capire come reagisce a ogni tipo di allenamento. Con il giusto equilibrio, posso fare tutto. 

  1. Se ti dico che devo controllare la glicemia, non sto cercando scuse

Durante un allenamento o una gara, controllare la glicemia è un gesto necessario, che mi mette in sicurezza, può significare fermarsi un minuto per capire come sto. Non è una pausa “per comodità”. A volte serve prima, durante o dopo l’attività: fa parte del mio allenamento, come il riscaldamento o lo stretching. 

Per favore, evita commenti fuori luogo e non farmi pesare il fatto che devo farlo. 

Può capitare che usi il telefono per leggere la glicemia o per controllare  

un’app collegata al sensore. 

Non è distrazione: è parte della mia gestione quotidiana della malattia. 

  1. Non ho paura di faticare, ma devo gestire i miei tempi

L’intensità, la durata e il tipo di esercizio possono far oscillare la glicemia in modi diversi. A volte ho bisogno di partire con un po’ di zuccheri in più, altre di rallentare per evitare un’ipoglicemia. Lasciami il tempo di capire il mio corpo: non è mancanza di grinta, è consapevolezza. Imparare a conoscersi è parte della disciplina sportiva. Aiutami a fare le cose con equilibrio, non a rinunciarci per paura. 

  1. Non trattarmi come “quello/a che deve sempre mangiare”

Quando la glicemia si abbassa, devo agire subito. 

Una bevanda, una barretta o delle caramelle non sono un semplice “snack”, ma strumenti di sicurezza che in certi casi mi salvano la vita. 

I carboidrati semplici (come zucchero e glucosio) agiscono rapidamente e devono essere sempre a portata di mano. 

Per questo porto con me una piccola borsa o zaino, contiene tutto ciò che mi serve e va tenuta vicino. È il mio salvavita. 

Se mi vedi un po’ confuso/a, pallido/a o disorientato/a, chiedimi se sto bene e aiutami a prendere qualcosa di zuccherato. 

È un gesto semplice, ma può fare la differenza. 

  1. Non trattarmi con eccessiva cautela, ma con fiducia.

Le variazioni glicemiche non si vedono, ma si sentono. 

Non serve allarmarsi o fermare tutto: serve ascolto e fiducia. 

Se ti dico che ho bisogno di un momento, lasciami gestire la situazione. 

Non è debolezza, è consapevolezza. 

Un atleta o un’atleta con diabete sa riconoscere i propri segnali e agire in tempo: aiutami solo a farlo con serenità. 

  1. Non giudicare una performance peggiore come mancanza di volontà o disciplina

Non tutti i giorni il mio corpo reagisce allo stesso modo: il diabete non segue schemi fissi. 

Ci sono giornate in cui mi sento forte e altre in cui il mio corpo fa fatica, anche se mi impegno allo stesso modo. È quello che succede a ogni atleta. 

L’importante è il percorso, non la singola prestazione. 

  1. Se uso un microinfusore o un sensore, non preoccuparti

Servono per monitorare la glicemia in tempo reale o per somministrare insulina. 

Possono vibrare o suonare: è normale.  

Non ostacolano i movimenti, fanno parte di me. 

Se vuoi capire come funzionano, chiedimelo pure — parlarne aiuta entrambi a gestire meglio gli allenamenti. 

Non preoccuparti: so bene cosa devo fare. 

  1. Non farmi sentire un rischio o un problema

La paura del giudizio, a volte può pesare più del diabete. A volte è difficile dire apertamente di avere il diabete, soprattutto in ambienti sportivi competitivi. Non farmi sentire un peso o un rischio per la squadra. Trattami come un atleta, non come un problema da gestire. Accogliere la mia malattia con naturalezza e rispetto mi permette di esprimermi al meglio, e anche di fidarmi di te. 

  1. Evita paragoni con gli altri, e ascoltami

Ognuno ha i propri ritmi, a prescindere dal diabete di tipo 1. Non mi serve che tu sappia tutto sulla malattia, ma che tu sia disposto ad ascoltare e ad adattare qualcosa, se serve. Sapere dove tengo il glucosio, cosa fare se mi sento male o semplicemente chiedermi “tutto ok?” può fare la differenza. 

  1. Lo sport mi aiuta a stare bene, anche con il diabete

Allenarmi migliora il mio equilibrio glicemico, la mia autostima e il mio benessere mentale. Lo sport è parte della mia terapia, non un rischio da evitare. Con un po’ di attenzione e comprensione reciproca, posso allenarmi senza problemi. 

Lo sport non mi definisce nonostante il diabete. 

Mi definisce insieme al diabete. 

E questo fa tutta la differenza. 

Allenare una persona con diabete significa allenare anche la fiducia, la conoscenza e il rispetto. 

E quando c’è tutto questo, la performance arriva da sola. 

Se ti ha fatto riflettere, condividilo: può aiutare qualcuno a sentirsi accolto e qualcun altro a capire meglio

Un grazie speciale a Cristina Cucchiarelli – Pronking – Sport & Diabete che ci ha aiutato a scrivere questo post.